La condizione migliore per ascoltare qualcosa o qualcuno è che ci sia silenzio, e l’ascolto di sé non fa certo eccezione: per poterci ascoltare – il che è la condizione preliminare e imprescindibile per essere consapevoli di come stiamo, di cosa stiamo facendo e di come lo stiamo facendo, del movimento e dell’immobilità –, dentro di noi ci deve essere silenzio.
La nostra mente è come una radiolina, che trasmette di continuo un programma creato dalla nostra società di appartenenza, in generale, e dalla nostra vita e storia personali, in particolare.
Se ci osserviamo per un po’, noteremo che nella nostra testa scorre un flusso praticamente ininterrotto di immagini, parole e pensieri, spesso noiosi ed estremamente monotoni, tra l’altro. Un fiume di frammenti di cose note che si combinano in collage più o meno creativi e stravaganti, ma che comunque danno luogo a un’infinita ripetizione di ciò che abbiamo appreso e assorbito in passato.
Da un lato, ciò è necessario per condurre la nostra normale esistenza quotidiana, ma, dall’altro, ci impedisce di essere nel presente, perché ci fa stare nel passato, e ci rende assai difficile percepire il nuovo.
Lo yoga è un’esperienza, e un’esperienza sempre nuova e diversa – in primis perché noi stessi siamo sempre diversi, attimo dopo attimo –, che inizia e finisce con l’inizio e la fine di ogni singola pratica. Fare yoga ci fa stare nel presente perché durante la pratica la nostra mente, invece di “blaterare” tra sé, dialoga di continuo con il corpo, e di conseguenza è lì, in quello che stiamo facendo: hic et nunc, dicevano i latini, e lo yoga è proprio la magia del qui e ora.
Dunque il silenzio che si crea dentro di noi non è assoluto ma relativo, e si traduce in uno stato di calma nel quale la mente si pone in una condizione di ascolto.
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