Appunti per il futuro insegnante

Parti del corpo o Asana? Quale metodo adottare?

Prendo spunto dalla domanda posta da un’allieva sul da dove si dovrebbe partire per impostare una lezione di yoga, o, in senso più ampio, un programma di un anno o più: si parte dalle parti del corpo che si vogliono “allenare” per raggiungere un’asana o dall’asana stessa? Premesso che yoga è equilibrio, e che qualsiasi asana lo contiene in modo intrinseco, basterebbe rispondere che è dall’asana stessa che poi si sviluppa tutto il lavoro. Sta poi all’insegnante decidere quale strada intraprendere per “illuminare” le parti del corpo coinvolte nell’asana che ha deciso di trattare nella lezione, o che ha deciso di inserire in un programma più ampio. È dall’osservazione della posizione che l’insegnante dovrebbe sapere quali parti in quel momento vanno stimolate e/o sviluppate, affinché l’allievo possa raggiungere “quella” posizione in modo agevole e con un profondo ascolto, senza trascurare i vari passaggi. Certamente il confine è molto sottile, e ciò potrebbe trarre in inganno; ma a una analisi accurata, l’obiettivo dello yoga, semmai ce ne fosse uno, è quello di creare spazio dentro di noi a partire dalle articolazioni: attraverso esse il prana dovrebbe fluire libero da ostacoli e/o blocchi, che nella maggior parte dei casi sono dovuti di fatto a blocchi mentali, traumi o situazioni irrisolte. È cosa nota che dopo un certo periodo di pratica l’allievo si senta molto più fl essibile e più “libero” nei movimenti, e che, conseguentemente, sperimenti maggior appagamento e gioia Il “miracolo” dello yoga sta proprio nella “liberazione”, che va oltre quella fisica. Tornando ora a come iniziare un corso di yoga di fronte ad allievi che non conosciamo, che provengono da altre scuole/metodi e/o che non hanno mai conosciuto lo yoga, gli approcci sono vari. L’insegnante deve dotarsi di una grande capacità di ascolto per meglio riuscire a “entrare” in sintonia con l’allievo, senza mai perdere la linea del proprio insegnamento. Di fronte a una classe di neofiti, il terreno è talmente libero e ampio che si rischia di perdersi e di non finalizzare la lezione stessa. Qualche punto dovrebbe essere fissato, come per esempio cominciare la lezione innanzitutto presentandosi, e poi chiedendo agli allievi il loro nome e magari che cosa si aspettano dallo yoga e perché hanno intrapreso questo cammino. Questo è un modo per conoscere meglio chi abbiamo di fronte e quali argomenti adottare per “rompere il ghiaccio”.

La lezione di solito inizia con una centratura, attraverso qualche minuto di pranayama o anche semplicemente di silenzio. Questo tempo non può essere lungo, quando abbiamo a che fare con dei principianti: non riuscirebbero a stare fermi e si annoierebbero. Si dovrebbe dare del tempo agli allievi, affinché possano entrare in questo mondo piano piano. Partire da seduti poi potrebbe risultare meno faticoso o frustrante per l’allievo. Spesso in palestra arrivano persone che non riescono a portare le mani a terra in uttanasana, e potrebbero scoraggiarsi. Partire da seduti e con l’ausilio di una cintura e/o di un cuscino sotto gli ischi risulterebbe più gratificante. Sarebbe da evitare, inoltre, che a mostrare la posizione, quando l’insegnante decide di spiegarla attraverso un allievo, sia sempre colui a cui viene facile quell’esecuzione. Ogni allievo ha i suoi limiti su cui lavorare, e sta all’insegnante mettere nelle condizioni corrette il praticante, sia quello con difficoltà sia quello più “bravo”. Lo yoga non richiede competizione: il lavoro è su di sé, e fin dall’inizio l’insegnante dovrebbe farlo presente ai suoi allievi, ripetendolo ogni volta che ne ravvisa la necessità. Sta poi all’insegnante proporre posizioni piano piano sempre più impegnative; ma all’inizio sarebbe preferibile ripetere le stesse, con l’inserimento di spiegazioni dettagliate diluite nel tempo: troppe informazioni all’inizio potrebbero creare confusione nell’allievo. A proposito di questo: la correzione è una parte importante dell’insegnamento, ma deve essere effettuata valutando il grado di conoscenza dell’allievo.

Un principiante è giusto correggerlo tempestivamente ; ma gli è anche concesso sbagliare. Rimanere troppo “addosso” all’allievo creerebbe pesantezza e disaffezione alla pratica: non dimentichiamo che è anche attraverso l’errore che si impara. Ci possiamo trovare di fronte ad allievi molto flessibili, per i quali le posizioni risultano facili: qui il compito dell’insegnante è quello di “frenare” l’allievo, per renderlo più consapevole di ciò che sta facendo: le persone troppo flessibili rischiano nel tempo di rovinarsi le cartilagini, non trovando limiti nell’esecuzione delle asana, senza mai comprenderle appieno. La rigidità, per quanto possa sembrare assurdo, è invece un aiuto per l’allievo, una protezione che negli anni ripaga. Con questo non voglio dire che chi è rigido debba trovare scuse per non andare oltre; anzi, deve superare gli ostacoli trovando la strada giusta, che spesso si presenta molto lunga. La creatività sarà poi di supporto all’insegnante per il suo insegnamento, per proporre posizioni o varianti che possano aiutare gli allievi a padroneggiarle al meglio. Il metodo contraddistingue la scuola di provenienza dell’insegnante, ma lo stile è ciò che lo caratterizza. All’inizio è facile “copiare” dal proprio Maestro, per svariati motivi, dovuti all’insicurezza e alla mancanza di esperienza; ma nel tempo ogni insegnante deve elaborare un suo linguaggio e un suo “stile”. Una cosa da tenere presente è che fino a quando una posizione o una variante vista dal proprio Maestro non è divenuta “propria” – e con propria intendo che la si è “incorporata” –, non la si dovrebbe proporre ai propri allievi: essa risulterebbe fredda, priva di quel calore che solo l’esperienza profonda può trasmettere. Questo vale anche per quelle materie che gravitano attorno allo yoga e che ne fanno parte, come la filosofia, i testi antichi ecc…: se non profondamente conosciute, sarebbe meglio lasciarle ai professionisti e/o a quegli studiosi che hanno dedicato la vita al loro studio. L’insegnante non si dovrebbe “mai” porre al livello di operatori medici; con gentilezza, può suggerire ai propri allievi di rivolgersi a professionisti della materia, in caso di problematiche fi siche sollevate dall’allievo stesso. Lo stesso vale anche per le confidenze troppo intime: l’insegnante dovrebbe mantenere un certo riserbo e una certa distanza dalla sfera personale degli allievi, senza mai per questo risultare freddo o scostante. Per quanto riguarda lo sviluppo di ogni lezione, lo si lascia alla sensibilità di ogni insegnante, che, in base alla percezione trasmessa dagli allievi, dovrà proseguire o variare la lezione stessa: non sempre l’idea della lezione che si vuole proporre trova la classe pronta a seguirla. Qui è solo l’esperienza, che si rafforzerà sempre di più negli anni nell’insegnante, che lo porterà a gestire le lezioni senza il continuo assillo di ricordare tutto o di essere nel giusto. Se all’inizio si preparano le lezioni a tavolino in modo meticoloso, col tempo basterà pensare a una posizione per poi sviluppare in palestra la lezione stessa in leggerezza, sempre però con professionalità. Molti insegnanti utilizzano durante le lezioni i cosiddetti “props”, comunemente chiamati attrezzi. Questa è una scelta dell’insegnante, dovuta in gran parte al metodo che applica. I “props” possono essere di grande aiuto per l’allievo, sia per semplificare alcune posizioni altrimenti irraggiungibili, sia, per i più esperti, per approfondire la propria pratica.

C’è un tempo per utilizzare gli attrezzi, ma ce n’è un altro per liberarsene: con questo intendo dire che l’abitudine al loro utilizzo porta a dipendenza, bloccando di fatto lo spirito di ricerca che lo yoga richiede, anche attraverso le difficoltà. Perciò va bene il loro utilizzo, ma poi praticare liberi è utile e liberatorio. Al termine di ogni lezione è consigliabile un momento di rilassamento, “shavasana”, nel quale l’allievo possa abbandonarsi completamente, senza opporre alcuna resistenza, mentale e/o fisica. È la posizione più complicata in assoluto da raggiungere: sembra strano, ma lasciarsi andare non è così facile. Spesso alcune parti del corpo e della mente rimangono tese e vigili; il compito dell’insegnante, in questo caso, è quello di condurre l’allievo a uno stato di completo rilassamento. In questo modo la mente potrà espandersi nel corpo, che a sua volta si lascerà attrarre dalla forza di gravità, senza opporsi a essa. Un ausilio potrebbe venire da alcune pratiche di training autogeno ben guidato. Non è necessario che il momento di shavasana sia lungo: spesso dieci minuti sono più che sufficienti per raggiungere un completo rilassamento e tornare alla vita di tutti i giorni carichi di nuova energia: dalla palestra gli allievi dovrebbero uscire sereni e rilassati, mai stanchi.

È da evitare in ogni caso, da parte dell’insegnante, sfruttare questo momento delicato, dove l’allievo abbandona le difese, per inserire argomenti moralistici di qualsiasi genere: non sarebbe eticamente e deontologicamente corretto; ma potrebbe anche causare danni in soggetti fragili e/o non particolarmente strutturati. Un argomento a parte lo richiede il pranayama, da molti considerato l’anticamera della meditazione. Respirare, respiriamo tutti, altrimenti moriremo. È il modo di respirare, lungo, lento e profondo, che potrà essere di grande aiuto per la salute fisica e mentale. Le tecniche di pranayama, se eseguite in modo corretto, possono rispondere alle esigenze dell’allievo: di fatto, alcune possono essere più energizzanti, come bhastrika; altre aiutano alla calma, e possono essere utili per apprestarsi a dormire, ecc… Quello che non si dovrebbe mai fare con i principianti o con allievi mai visti prima è proporre lezioni di pranayama: primo perché il pranayama abbisogna di consapevolezza di sé, secondo perché possiamo trovarci di fronte persone psicologicamente provate e/o che utilizzano psicofarmaci. È buona cosa informarsi prima, soprattutto per il secondo caso: troppo spesso gli insegnanti propongono il pranayama con leggerezza e con superficialità, senza tenere conto della potenza che questo strumento contiene. Non sono rari i casi in cui all’insegnante è sfuggita di mano la situazione, non riuscendo a gestire le crisi di persone con problemi, creando di fatto anche danni psichici permanenti. Lo stesso, in questo caso, vale per la meditazione.

Da ultimo, ma comunque molto importante, il modo con il quale l’insegnante si relaziona all’allievo e/o alla classe. Il modo di parlare, di muoversi e di toccare nel correggere sono di estrema importanza, e fanno parte dello stile dell’insegnante stesso, contraddistinguendolo dai suoi colleghi. Il tono della voce dovrebbe variare a seconda del momento e a seconda dell’allievo. Il tono può essere un incentivo e uno sprone per l’allievo; oppure può generare rifiuto e rigidità da parte dell’allievo stesso. Qui sta all’insegnante scegliere come comportarsi, attraverso la sua esperienza, ma anche con un’osservazione e un ascolto attento di chi si trova davanti. Il buonsenso è necessario, ma una formazione base di comunicazione verbale e non sarebbe di grande supporto. Una cosa che ogni insegnante non dovrebbe mai dimenticare è la sua formazione continua, il mettersi costantemente in gioco, il non sentirsi mai “arrivato”.

Questo comporterà un’evoluzione nel suo cammino personale e professionale, a vantaggio anche degli allievi stessi che con lui/lei cresceranno a loro volta.

Buon lavoro

Namastè

M° Senior Teacher Jyotim Paola Polli Yoga Yakshamada

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